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PACA RONCO
 

          I rebus di Paca - Oggetto non è sinonimo di cosa, non nella tradizione filosofica occidentale, almeno. Eppure da questo fraintendimento discende, nell' esperienza percettiva di ognuno, un grave danno conoscitivo. Cosa deriva per contrazione dal latino medievale causa - "ciò che importa" - traduce il greco pràgma e il latino classico reso Oggetto, da objectum (greco pròblema, tedesco Gegenstand) - "quel che mi sta contro" - si riferisce all'evidenza fisica. Perciò né Aristotele né Hegel si riferiscono all'oggetto quando scrivono autò tò pràgma, ovvero Sache selbst : "la cosa stessa", "la cosa in sé".
            La filosofia del secolo scorso ha ripreso in mano la questione e, nel tentativo di discernere tra entità così diverse, ha chiamato in causa l'arte come habitat, area protetta, riserva di cosalità, di contro al quotidiano, regno incontrastato dell'oggetto. Se quest'ultimo, infatti, costituisce insieme ostacolo e promessa di possesso, è la cosa il vero fine della conoscenza che procede dalla percezione estetica. Merleau Ponty scriveva a proposito della natura morta: "Cézanne è capace di trasformare gli oggetti in cose specifiche, di farle scaturire dall' opacità del quotidiano"; Heidegger, in un famoso passo, nota che una comune brocca, lungi dal ridursi all'oggetto fisico con caratteristiche quantificabili, incorpora relazioni sociali e naturali, assorbe una patina mitica e affettiva acquisendo valore simbolico, ad esempio il vuoto che la costituisce allude al contenere quanto vi si verserà e si offre come gesto ospitale.
            Tali considerazioni andavo ricapitolando nella mente quando si sono offerti al mio sguardo inquinato e disattento i pacchi dono che campeggiano in alcuni quadri di Paca Ronco. Come gli altri soggetti ricorrenti della pittrice piemontese, parimenti estratti dal campionario dell'inanimato domestico che quotidianamente ci circonda, questi pacchi giudiziosamente confezionati mostrano, dietro l'innocua apparenza, un volto minaccioso: bomba o regalo? In ogni caso un interrogativo è il moto che si impone alla mente - non  all'occhio, preventivamente rassicurato dall'evidenza fenomenica - di chi fronteggia una tela di Paca.
            Come la celebre e filosofica brocca, ho pensato, la scatola significa la propria capacità e si offre come gesto affettivo, pertanto chi dipinge è interessato a rappresentare la rete di relazioni potenziali contenute nel dono, la causa-cosa del gesto, non il mero oggetto fisico passibile di misurazione. E da simili premesse facilmente trascorrevo alle implicazioni psicologiche dell' atto, tipicamente femminile, di rendersi disponibile, offrirsi allo sguardo e al possesso con la frustrazione conseguente, qualora il presente resti intonso e intatto il tesoro custodito.
            Ma se l'esercizio dell'intelligenza visiva è il compito cui certa pittura ci chiama, ho buone ragioni di interrogarmi su un dittico dipinto dalla Ronco nei primi anni 2000, o meglio, su due tele da me vissute come coppia inscindibile, con le quali mi è capitato di sviluppare una consuetudine familiare di cui dirò più avanti. Strip tease (Panama) e Edipo al bivio, identiche dimensioni e molti altri motivi di affinità, sopportano un discorso preliminare che muova, in parallelo, dalla descrizione all'interpretazione senza passare per il giudizio. In entrambi i casi, su uno sfondo di nubi basse e sottilmente minacciose, pochi "oggetti" si impongono allo sguardo campeggiando su sottili pannelli in forma di parete o tavolo. Le nuvole, appunto, recano una larvata minaccia di pioggia ma , soprattutto, paiono basse su un orizzonte che si indovina lontano, come se la scena ( il dramma) avvenisse in un regno iperuranio che non può non ricordare il platonico mondo delle idee. Pochi elementi campiti in cielo, dove è nullo il loro valore d'uso al pari, forse, della gravità. Tre, per la precisione, gli "oggetti", di cui uno decisamente preponderante e alluso nel titolo (il panama), integrati da un quarto, trascurabile come una nota a piè di pagina (la coppia di penne d'oca). Quella che pare una parete vanta un identico colore nei due dipinti e, nella frontalità assoluta, malcela una consistenza da quinta teatrale. In Edipo al bivio il pannello verticale incrocia, come l'asse delle ascisse quello delle ordinate, una superficie traslucida e smeraldina che serve da piano d'appoggio per gli altri elementi - in Strip tease affissi alla parete o poggianti en trompe l'oei! sulla cornice. Uno schema compositivo così elementare e ricorrente non può non richiamare alla memoria dell' occhio gli sfondi pseudo paesaggistici di certo Licini. Insomma, entrambe le tele paiono dei rebus dai quali siano cadute le lettere capaci di condurre a soluzione, rebus muti come quelle infide cartine sulle quali venivano messe a prova le nostre conoscenze in materia di geografia. E rebus potrebbe intitolarsi una vasta parte della .produzione di Paca Ronco o almeno una sua prossima personale, previa verifica dei diritti che gli eredi Rauschenberg potrebbero rivendicare (l' action painter statunitense realizzò nel 1955 un'opera con quel titolo). Ferma restando l'inconciliabilità tra esperienze artistiche così distanti, non sarà poi un caso se artisti contemporanei provocatoriamente assimilano i propri prodotti ad enigmi, in modo da stimolare chi guarda a collaborare attivamente all'esperienza estetica in vista di un'interpretazione mai univoca, come invece la soluzione enigmistica.

            Esaurita la descrizione parallela, guardiamo alle due opere nella loro specificità individuale. Strip tease - cui si dà la precedenza anche per ragioni cronologiche, essendo datata la prima titolazione (panama) 2001 - espone, nell'ordine, un cappello ( il panama, appunto), un ticket del parchimetro ed una busta aperta, priva di lettera ma nella quale si insinuano un paio di penne d'oca adatte alla scrittura. Nell'ordine, dicevamo, perché ci pare che, con sprezzatura ironica consapevole o no, l'opera consenta la lettura progressiva tipica della vignetta o, di nuovo, del rebus. La scena è invasa dall'ingombrante presenza del cappello­titolo, un panama che, a dispetto del bianco che lo caratterizza, allunga un' ombra minacciosa fin oltre la cornice del quadro, come dire oltre il regno dell'immaginario, fin dentro la realtà. È difficile trattenersi dal riferire questo elemento preponderante alla costellazione del "maschile" , tanto più che queste, come altre tele di Paca , pongono maschile e femminile in una dialettica esibita en plein air nel suo drammatico e immobile accadere. In Strip tease, per esempio, la busta squadernata all'interno della quale si legge la firma d'autore, appare letteralmente oppressa dall'incombente panama, tanto da poggiare, con gradevole effetto illusionistico, sul margine inferiore del quadro, ovvero sulla cornice (seconda allusione alla realtà esterna che circonda il quadro).Solidale con la parete come il cappello ma - diversamente da quello che sta comodamente sospeso - trafitto da uno spillo come usa con le farfalle, il ticket del parcheggio per la sua leggerezza cartacea condivide con la lettera la medesima natura e si oppone al genere maschile del panama.       
           Freud ha insegnato che a volte i sogni letteralizzano la metafora e non è senza significato per la lettura dell' opera che la locuzione "appendere il cappello" stia per "prendere possesso, insediarsi". Il ticket, dicevamo, reca leggibile, anno mese e giorno della sosta per la quale si è pagato pedaggio e introduce l'elemento del tempo che movimenta e sostanzia l'opera pur nella sua staticità. Una sosta, appunto, un vuoto di tempo, una pausa fissata e inamovibile. Ma torniamo alla lettera, vuota come ci immaginiamo i pacchi dono di cui si diceva in apertura, ma come quelli disponibile e docile ad essere riempita di molteplici contenuti, come dimostrano gli strumenti della scrittura per antonomasia - le due "penne" - inserite. Di nuovo, qui si potrebbe arrischiare un'interpretazione psicologistica d'accatto (cui l'opera maliziosamente invita), un'incòndita disposizione femminile alla comunicazione, ma il sintagma lettera - penna in relazione all' enunciato costituito dal dipinto nella sua integrità, non si esaur.isce in una sola lettura. Tanto più che il corpus resta per noi il dittico composto da Strip tease e Edipo al bivio e ogni interpretazione dell'uno interagisce con l'altro organicamente. Infine, lo stesso titolo - in italiano: spogliarello - pare corroborare l'ipotesi confessional secondo la quale sarebbe alto il tasso autobiografico e l'attitudine 'diaristica del quadro già titolato, meno esplicitamente, Panama.
            Edipo al bivio è titolo che, se possibile, ancor più decisamente guida il lettore - spettatore verso un' interpretazione "a chiave" e richiama automaticamente una serie di luoghi comuni - la sfinge, l'enigma - che conducono inesorabilmente verso un'illusoria soluzione. Trattenendoci dall'imboccare risolutamente la cattiva strada che ci condurrebbe ad un paio di domande imbarazzanti (chi è Edipo? dove sta il bivio?), partiamo da ciò che cade sotto i sensi. L'impalcatura della tela consiste in un palinsesto di due piani, parete più tavolo, dove l'asse orizzontale è raddoppiato in basso da un piano che segna appunto l'orizzonte e parodisticamente sfoggia una tonalità terrosa, contraddetta dalla sua estrema levigatezza. Nel palinsesto, rispettivamente solidali con la parete, col tavolo e col suolo stanno: una carta da gioco, un dado ed un cavallo degli scacchi (quarto elemento, i brevi fili colorati sul tavolo). Se l'atto unico di Panama si svolgeva all'ombra del cappello, qui il dramma si consuma alla luce di un asso di quadri (situato nello stesso luogo del copricapo) cui manca la A ma che, in compenso, presenta un tagli etto sul lato corto inferiore. Insomma, una carta segnata, una cattiva stella per lo svolgersi di un gioco che rischia di risultare truccato all'origine. Il caso, la sorte sembrano temi centrali di un'opera i cui protagonisti provengono dal regno del gioco se non dell' azzardo, ma è latinamente la fortuna - il destino - la posta sul piatto. Il cavallo lievemente rampante la cui fisionomia tende al ritratto - non un cavallo qualsiasi perciò, non il pezzo degli scacchi vagamente sbozzato con tratti equini stilizzati e convenzionali - pare fermarsi in attesa dell' esito che scaturirà dal colpo di dadi, per dar sfogo al galoppo dolorosamente rattenuto (la vena enfiata sul muso) o rassegnarsi all' immobilità. Il dado tuttavia, come già la carta, mostra una faccia muta (o è solo il riflesso del piano smeraldino? ) e si bilancia in un biblico che dovrebbe risultare istantaneo ma, a giudicare dalla smorfia dell' animale, dura da troppo. Lo stallo della situazione non può non derivare dal segnale di rosso che l'asso di quadri - paterno in quanto "seme" - intima da sempre. La legge che frustra e castra il puledro ansioso di correre gli preesiste ovvero data dalla sua origine, come fa l'istanza superegotica. Anche in questa seconda tela però sussiste l'elemento temporale, vi alludono i tre brevi fili colorati disposti sul piano, il più avanzato dei quali sta per superarne il bordo. Si, i fili paiono animati come lombrichi e tutti in cammino verso il margine del tavolo ma la loro marcia si indovina così lenta da annullare, nella pratica, la speranza di futuro. La tumultuosa esistenza del puledro e la strisciante biologia dei vermi - filo appartengono a ordini cronologici diversi e il trascorrere del tempo segnalato dai secondi equivale ad un'eternità per il primo. Il bivio è insomma solo apparente perché l'asso non smetterà di rosseggiare sinistro né il dado cesserà il suo esercizio di equilibrio sulla superficie sdrucciolevole e verde di quello che pare un tavolo da gioco di cristallo. Tutto ciò nonostante l' ambientazione sia aurorale - come lasciano supporre alcune goccioline di rugiada - e il tempo a disposizione perciò ancora lungo, come per chi stia per affacciarsi alla  vita adulta. Ma è questa per il cavallo, il dado, la carta la prima alba o l'ennesima?

            Eccoci giunti perciò dove non volevamo arrivare, ad una soluzione univoca verso la quale pure la stessa artista ci spinge per verificare magari la coincidenza con la propria. Ma occorre sottrarsi a simili tentazioni, sia come autori che come spettatori, poiché la soluzione è tipica dell'enigmistica mentre all'arte spetta il lavoro incesante dell'interpretazione. E poi, come potrebbe valere la parola della pittrice se le immagini che crede di possedere mostrano invece di condurre un'esistenza autonoma? È il caso dei pacchi dono, soggetto caro alla Ronco, che però possono essere ugualmente ammirati, stavolta con dovizia di nappe e drappeggi, in Newbury Street, a Boston, firmati anche questi da una pittrice – Pamela Sienna - che a sua volta li esibisce come marchio di fabbrica. Naturalmente è lecito ricondurre universi pittorici così affini, anche se distanti nello spazio e ignoti l'uno all'altro, ad un'unica matrice, quella seconda linea del surrealismo praticata da Manritte, definita reazionaria e implosivi da Breton e che, effettivamente, dopo il 1940 prese a ripetersi mentre nuove linee di ricerca si imponevano. Se la retta via del surrealismo conduceva "automaticamente" all'inconscio,  questa seconda era destinata ad arrestarsi al trompe l'oei! fornendo prove illusorie e "dipinte", tipiche di sur e iper-relaismo. Ma a più di sessant'anni da quel 1940 che separa il grano dell' automatismo dalloglio dello straniamento a tavolino, gli ismi del reale hanno continuato ad accumulare prefissi come macerie sul senso di realtà, tanto che qualcuno ha perso la speranza di estrarlo vivo dalle rovine.

         L'arte mantiene tuttavia il suo formidabile potenziale di svelamento ancora oggi, come dimostra, tra l'altro, la personale esperienza della pittura di Paca. In occasione di una sua mostra perugina, infatti, io e mia moglie abbiamo avuto l'opportunità di ospitare le due suddette tele su una parete casalinga che ancora oggi, dopo mesi, le esibisce. Dopo l'iniziale stupore per il senso di sfida che il dittico produceva su noi imponendo imperativamente gli interrogativi propri dell'interpretazione - la cui obbligatorietà è pari a quella dell'azione penale - inevitabilmente le domande, ancorché inevase, si sono fatte meno pressanti fino ad attutirsi in una quotidiana frequentazione mutatasi infine in quella consuetudine che esclude l'ammirazione. E solo a questo punto abbiamo realizzato che i quadri ci guardano. Per un'occhiata inquinata e disattenta che siamo capaci di dedicare loro in casa o in una galleria ("tu sei passato / ma non come sfugge alla memoria! un'aula di museo", scrive il poeta), i loro occhi senza palpebra restano spalancati su noi giorno e notte, continuamente. Molti hanno guardato la Gioconda, ma tutti sono stati visti da lei. Molti si sono chiesti il perché di quel sorriso, ma quel sorriso continua a interrogare ognuno sul senso dell' esistenza. Insomma, chiedersi di un dipinto cosa significhi, specie di opere così maliziosamente enigmistiche, ed eventualmente lamentarsi di non capire e denunciarne la gratuità e il non sense è insensato. L'arte, quando è tale, intimamente tende al significato; di parole, suoni, colori fa segno. È la forma a consentirglielo, o meglio, la finitezza, condizione che pur condividendo non sperimentiamo davvero nelle nostre esistenze chiuse tra le parentesi inconcepibili di nascita e morte. Pertanto è l'arte, è il quadro a chiederci ragione delle nosre esistenze, a domandare "che significa?" della nostra vita perduta nel caos quotidiano dell'informe, ed è la vita di ognuno a non fornire risposte comparabili alla compiutezza apollinea del fare artistico.
            Con maggiore chiarezza Marcel Proust: "La grandeur de l'art véritable ... c'était de retrouver, de ressaisir, de nous faire connaitre cette réalité loin de la quelle nous vivons, de la quelle nous nous écartons [...] cette réalité que nous risquerions fort de mourir sans l'avoir connue , et qui est tout simplement notre vie, la  vraie vie". (Ugo Fracassa, estate 2004

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